Una rivolta senza soggetto. L’Estallido Social cileno nella crisi di modelli politici
Andrea Fagioli

1.
La durissima sconfitta della proposta di nuova costituzione e il brutale spostamento a destra del quadro politico cileno che ne è seguito, per lo meno in termini elettorali, sembrano a prima vista aver rinchiuso in una parentesi l’Estallido social che ha fatto tremare il modello politico-economico del paese e i suoi vincitori designati. “È stato solo un grande spavento”, avranno pensato sollevati tra le fila del “partito neoliberale”. A prima vista, infatti, tutto indica che il paese sia tornato a quella normalità che, secondo uno degli slogan più celebri della rivolta cominciata a ottobre del 2019, “era il problema”.
Uno sguardo più attento suggerisce però un’altra lettura: che le élite politico-economiche non sono riuscite a chiudere dall'alto una crisi che era stata aperta dal basso e che, se è vero che la costituzione pinochetista continua a essere vigente, è anche vero che il modello che quella costituzione ha cristallizzato e blindato è stato completamente delegittimato, sia dalle piazze sia dalle urne. Resta allora da chiedersi che cosa ne è oggi di quella potenza che ha aperto il processo costituente, e di farlo al di là della dimensione strettamente giuridico-costituzionale1. Nel momento in cui il “partito neoliberale”, dopo un periodo di profondo smarrimento, ha ritrovato il bandolo della matassa e riesce a imporre la sua agenda (soprattutto per quanto riguarda temi come sicurezza, immigrazione, narcos, etc.), è importante domandarsi come può ritrovare centralità e capacità di “fare male” quella potenza politica che, anche se non ha prodotto un nuovo ordine politico-istituzionale, ha scosso le fondamenta del paese, i suoi a priori storici.
È a partire da questi interrogativi che il problema dell’organizzazione politica, sul quale ci invita a riflettere collettivamente, e sulla base di diverse esperienze recenti, questo numero inaugurale di Teiko, si configura come una questione cruciale nell'analisi del “Laboratorio Cile”. Questo anche in virtù del fatto che, pur non essendosi dato un dibattito profondo al riguardo, il ritornello “è mancata organizzazione!” trova spazio negli abbozzi di autocritica e nelle chiacchierate informali su che cosa sia andato storto.
Per cercare di fare chiarezza, mi pare che prima di tutto sia necessario iscrivere la rivolta entro coordinate spazio-temporali ben precise – il Cile contemporaneo, ovviamente, ma più in generale la congiuntura attuale latinoamericana e mondiale –, il cui sfondo è costituito da varie crisi concatenate di modelli politici che legano a filo doppio il livello locale con quello regionale e globale, il momento destituente e quello costituente della rivolta. Da una parte, la crisi del modello cileno; dall'altra, quella dei modelli che hanno orientato il pensiero e la pratica politica a partire dal Novecento, ovviamente ben al di là della sola America Latina, sia a livello di Stato sia a livello di militanza.
In secondo luogo, bisogna tenere in considerazione la composizione delle piazze dell’Ottobre cileno, le soggettività che le hanno abitate. Mi sembra che la crisi di certi modelli di pratica politica e di militanza abbia costituito un punto di forza dell’Ottobre cileno, tra le altre cose perché ha contribuito a portare in piazza – e anche a organizzarsi, in molti sensi – nuovi manifestanti, ma allo stesso tempo ne abbia rappresentato un limite che mette in evidenza la necessità di un compito enorme, quello di immaginare nuove forme di organizzazione politica.
2.
Partiamo dalle crisi di modelli. L'Estallido social ha costituito il culmine di un ciclo di mobilitazioni che per quasi due decenni hanno messo in discussione i punti cardinali del modello politico-economico del Paese. Un modello che è stato costruito dalla dittatura di Pinochet, nell’orgia tra militari, economisti neoliberali, capitale nazionale e internazionale2, ma che non è mai stato riformato in maniera profonda durante gli anni della cosiddetta “transizione” alla democrazia. Le coalizioni di centro-sinistra che hanno governato quasi ininterrottamente dalla fine della dittatura (1990) – l’eccezione sono i due mandati di Sebastián Piñera, uno intero (2010-2014) e un altro che era cominciato da meno di due anni al momento della rivolta – non hanno modificato le regole di un gioco pensato per sopravvivere ai militari. Nonostante alcune riforme importanti che ne hanno eliminato gli aspetti più autoritari, i governi a guida socialista o democristiana hanno amministrato il modello senza intaccarne la logica, facendolo in maniera molto “efficiente” e contribuendo così ad alimentare il mito del Cile come “oasi di stabilità” economica e politica in un continente spesso preda di “convulsioni”3.
La cosiddetta “Rivoluzione dei pinguini” del 2006 – dal tradizionale bianco-nero delle uniformi degli studenti medi delle scuole pubbliche –, il movimento degli studenti universitari del 2011, il movimento NO+AFP che nel 2016 si è mobilitato per la riforma del sistema di pensioni totalmente privatizzato, e il Maggio femminista del 2018, sono stati solo i momenti più algidi di conflitto che nel corso degli anni hanno fratturato questo mito, prima dell’esplosione che nel 2019 ha scosso le fondamenta di quell'esempio “virtuoso” di democrazia in America Latina.
Ma questa, si è già detto, non è l’unica crisi. Su un altro piano, per nulla secondario, troviamo che non sono più disponibili le principali forme di pratica politica che fino alla caduta del muro di Berlino avevano indicato il cammino a molti militanti, movimenti e, soprattutto, partiti “rivoluzionari” di tutto il mondo. In questa tenaglia di crisi ciò che è andato in frantumi pare essere soprattutto la possibilità di prendere il potere – à la Guevara, con le armi, o à la Allende, con le urne, se vogliamo rimanere nella regione – e usare lo Stato per liberare le classi subalterne, i “dannati del continente”. Anche perché, al di là delle ambigue fantasie nazionaliste che si stanno risvegliando un po' ovunque4, sembrano proprio i limiti dello Stato-nazione ad aver sotterrato la possibilità di immaginare quella società ultima per cui hanno lottato generazioni di militanti in tutti i continenti e che si sarebbe dovuta costruire con la presa del Palazzo d’Inverno, nel nostro caso della Moneda. Negli ultimi decenni, si è scritto e detto da più parti, lo Stato si è riorganizzato in termini neoliberali e al di là della nostalgia che possiamo avere rispetto a certe esperienze, non ha oggi la “forza” di affrontare sul suo terreno il capitalismo globale. Visto da una prospettiva latinoamericana, e solo per fare un esempio, questo è evidente negli attacchi a monete “sovrane” che, distruggendo settori interi delle economie nazionali e dollarizzando spazi crescenti dell'economia e della vita, rendono insostenibile – e quindi impopolare a stretto giro di posta – qualsiasi esperimento a cui “i mercati” fanno una più o meno dichiarata guerra.
D'altronde, se pensiamo al contesto regionale degli ultimi mesi del 2019, il primo elemento da rilevare è che nel momento in cui è scoppiato l'Estallido social, le esperienze dei governi progressisti latinoamericani erano finite; agli sgoccioli; in un tunnel di cui ancora oggi non si intravvede via d’uscita; o stavano tornando in una versione soft (in alcuni casi già nuovamente fallita). Non è questa la sede per proporre un bilancio delle esperienze che hanno segnato i primi lustri del nuovo millennio in America Latina, ma va semplicemente registrato che non erano in grado di fornire nessun modello a chi era in piazza in Cile e aveva il desiderio di cambiare tutto. A maggior ragione, se si considera che, nonostante i governi socialisti di Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, il paese era rimasto ai margini di quella che a suo tempo era stata definita Pink Tide (Marea rosa).
Se da una parte non c'è dubbio che l'alleanza costruita sull’asse Frente Amplio/Partito Comunista sia potuta arrivare al governo spinta dalla potenza della rivolta (oltre che dalla paura di un candidato apertamente pinochetista, come José Antonio Kast. Non dimentichiamolo!), dall’altra non possiamo assolutamente considerare il governo di Gabriel Boric – ma in generale nessun governo – come il coronamento di un processo come quello che si è aperto nell'Ottobre 2019.

© Marcelo Hernandez/Getty Images

3.
Scendendo al livello della strada dobbiamo partire da una prima constatazione: il coinvolgimento di persone che negli anni precedenti all’Estallido Social non avevano partecipato alle mobilitazioni organizzate da partiti o movimenti sociali strutturati, e che più in generale non avevano una “traiettoria militante”, ha rappresentato in qualche modo la conditio sine qua non della rivolta.
Anche se l’universo che la sociologia che si occupa di movimenti sociali chiama “first-time protesters” o “primo-manifestantes”5 è molto poco omogeneo, si tratta di persone che non avevano mai protestato “contro” qualcosa, né per “elevare” domande specifiche ai rappresentanti, tanto meno lo avevano fatto per dimostrare la propria posizione in marchas come quelle per l’orgoglio LGBTIQ+, l’8M, in manifestazioni contro la guerra o l’apartheid in Palestina. Hanno deciso di partecipare, per la prima volta, al calore degli eventi di Ottobre e, in molti casi, l’indignazione di fronte agli abusi delle forze dell’ordine ha giocato un ruolo nella decisione.
A ogni modo, l’importanza di questo segmento è stata fondamentale a vari livelli e non può essere ridotta alla pur cruciale dimensione quantitativa. Parliamo di Estallido social, che potrebbe essere tradotto come “esplosione”, perché la rivolta è andata molto al di là sia delle domande specifiche delle mobilitazioni che avevano scandito il ciclo di lotte dei movimenti degli ultimi due decenni – la riforma del sistema educativo, di quello previsionale, la legalizzazione dell'aborto, la difesa dei beni comuni, la questione originaria, etc. – sia, ovviamente, delle rivendicazioni più “novecentesche” delle battaglie sindacali. Il coinvolgimento di persone che non si erano mobilitate fino a quel momento ha avuto un peso rilevante nella generalizzazione della protesta e nel salto da domande specifiche a un rifiuto del “modello” cileno.
Slogan diventati mondialmente famosi come “Hasta que valga la pena vivir”, “Hasta que la dignidad se haga costumbre” o il già citato “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema”, solo per citare i più famosi, puntavano il dito soprattutto contro i modi di vita compatibili con quel modello, contro la “mentalità” che militari e intellettuali neoliberali avevano cercato di imporre, contro la soggettività neoliberale, cellula minima e campo di battaglia della società integralmente neoliberale.
Le manifestazioni a cui hanno cominciato a partecipare in maniera massiva i “primo-manifestantes” non avevano una consegna, un obiettivo a breve termine, né un soggetto politico unitario che le convocasse e hanno trovato il collante in prima istanza in quella dignità – che ha rapidamente ribattezzato la piazza epicentro della rivolta – considerata impossibile entro i modi di vita neoliberali. Anche se è successo immediatamente, è stato in un secondo momento che ha preso il centro della scena la domanda di una assemblea costituente, presente in realtà da molto tempo nei movimenti, per il ruolo di “camicia di forza” attribuito alla costituzione del 1980, considerata il principale ostacolo verso forme di vita “altre”, degne di essere vissute. Oltre, ovviamente, alla costituzionalizzazione del capitalismo che sancisce, al fatto che lega le mani del pubblico in economia, che favorisce lo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, etc.
È così che l'ordine “integralmente neoliberale” a cui gli uomini della dittatura avevano cercato di dare forma, con la forza del terrorismo di Stato e con la “nuova istituzionalità” cristallizzata nella costituzione del 1980, è diventato l’obiettivo polemico della maggioranza di quanti andavano in piazza.
C'è però un terzo elemento, strettamente legato ai primi due, che mi interessa particolarmente. Dallo studio di ricercatrici e ricercatori che si sono concentrati fin da subito sul segmento dei “primo-manifestantes” è emersa la questione della politicizzazione, della soggettivazione politica che si è prodotta nella cornice dell’Estallido social. Detto sinteticamente: nel fatto stesso di “scendere in strada” è iniziato un processo di politicizzazione che ha permesso di mettere in relazione e articolare il malcontento delle situazioni personali con la situazione del paese. In questo modo, come è stato scritto, molti nuovi manifestanti hanno cominciato a prendere sul serio la politica, “dando consistenza, a partire dalla propria esperienza, allo slogan ‘Chile despertó’ (il Cile si è svegliato)”6. I “primo-manifestantes” non erano soggetti moderni, atomi portatori di interessi che, alla luce di una riflessione razionale, hanno deciso di partecipare a manifestazioni di cui condividevano le ragioni. Nello scendere in strada, nel mescolarsi con altri corpi, nel resistere allo stato d’emergenza e alle cariche violentissime dei Carabineros, nella partecipazione ad assemblee di quartiere e a manifestazioni carnevalesche, è iniziato un processo che ha profondamente modificato in termini politici quelle soggettività che, come si è detto poco sopra, costituiscono uno dei principali terreni di battaglia del progetto neoliberale. Questo risveglio, se vogliamo continuare a giocare con il “despertar del Cile” emerso dalle strade, era assolutamente palpabile nel desiderio di partecipazione, nel vincere la paura dello scontro di piazza, nella volontà di comprendere cosa fosse in gioco nel processo costituzionale e perfino nella voglia di portare la parola politica in luoghi dove non aveva dimora prima dell'Estallido social7: in ufficio con colleghi e colleghe, nel trasporto pubblico con persone sconosciute, nei pranzi familiari con parenti pinochetisti, etc.
4.
Nonostante l’Estallido social non sia sorto dal nulla e l’esperienza dei movimenti protagonisti del ciclo di lotte antineoliberali abbia costituito una base importante per sostenere la rivolta, una delle principali differenze rispetto a quelle mobilitazioni è stata che non ha prodotto leader – il caso più emblematico in questo senso era stato quello del movimento studentesco, da cui sono emersi i vari Boric, Camila Vallejo, Giorgio Jackson, etc. – e le organizzazioni sociali e politiche più strutturate non hanno capitalizzato la loro esperienza militante. Nemmeno la Mesa de Unidad Social (Tavolo di Unità Sociale) che riuniva oltre 140 organizzazioni, dalla CUT, il sindacato più importante del paese, ad alcuni collettivi femministi, e che nelle settimane immediatamente successive all’inizio della rivolta ha convocato tre scioperi generali, ha avuto un ruolo di direzione. Questa, che potrebbe apparire come una mancanza, ha costituito un punto di forza dell’Ottobre cileno, in primo luogo a livello strategico, perché ha neutralizzato la vecchia ma sempreverde strategia di ghigliottinare i movimenti: liquidare uno o più leader sarebbe stata la cosa più semplice per indebolire la potenza dell’Estallido social. Ma nel Cile del 2019 non c’erano teste da far rotolare e l’allusione del presidente Piñera a un “nemico poderoso e implacabile” che ha via via cambiato sembianze, prendendo quelle dei vandali o dei gruppi organizzati stranieri – “un battaglione di 600 venezuelani e cubani esperti in guerriglia urbana” – ben rappresenta la confusione nella quale era perso in quel momento il partito neoliberale e la difficoltà che stava incontrando nell’applicare una ricetta classica di controinsorgenza.
Ma sarebbe riduttivo rimanere solo su questo piano strategico. In un contesto in cui l’insofferenza verso le leadership politiche ha costituito un elemento trasversale a tutte le anime presenti nelle piazze, l’Ottobre cileno ha tratto legittimità proprio dall’assenza di leader riconosciuti e dall’orizzontalità delle proteste. Senza voler omettere le differenze tra le due congiunture, mi pare che si possa usare per l’Estallido social la formula di “insurrezione senza soggetto”, usata dal Colectivo Situaciones di Buenos Aires per riferirsi alle giornate del 19 e 20 dicembre 2001, quelle del “Que se vayan todos!”. Vale a dire una rivolta senza un’organizzazione centralizzata e che grazie soprattutto alla presenza di quelle persone di cui si è parlato sopra, che abitualmente non partecipano alla vita pubblica, se non in quanto oggetti da rappresentare, “ha destituito di validità ogni logica fondata sull’esistenza di un centro”8 .
La mancanza di centralità vista da questa prospettiva non è sinonimo di mancanza di organizzazione. Le giornate cominciate a ottobre del 2019 hanno invece mostrato un dispiegarsi, a volte anche molto sofisticato, di intelligenza collettiva. L’abbiamo vista all’opera nella Prima Linea, il gruppo “di contatto” con le forze dell’ordine, che si basava su una divisione (mobile) dei compiti – sostenere gli scudi, rompere il selciato per avere pietre, neutralizzare con bicarbonato i gas lacrimogeni, etc. – e cercava di assicurare l’integrità del resto dei manifestanti; nell’articolazione tra prima e Seconda Linea, quella che si occupava di feriti, alimenti e idratazione; nella volontà di difendere piazza Dignidad, “presa” il 18 ottobre e presidiata 24 ore al giorno per mesi; l’abbiamo vista nelle performance artistiche moltitudinarie che hanno saputo attirare l’attenzione del mondo su quello che accadeva in Cile, nelle assemblee di quartiere, in alcuni casi già attive da prima dell’Estallido social, e nelle Ollas comunes (pentole comuni) che nei quartieri popolari hanno assicurato pasti e che hanno intensificato i loro sforzi dopo l’inizio della crisi legata al Covid. E l’abbiamo vista anche nella capacità di disputare il terreno elettorale a macchine di propaganda molto oliate e che ha portato moltissimi candidati e candidate emersi dalle piazze a sconfiggerne altri legati a gruppi economici dai mezzi illimitati.
Credo allora che il problema della “mancanza di organizzazione”, molte volte evocato, non si possa attribuire al “momento destituente” della rivolta, alla messa in discussione del modello cileno. La mancanza di organizzazione che possiamo rilevare è legata alla crisi di modelli di pratica politica del passato. La nostalgia, a ogni modo, non è la miglior consigliera politica e pensare di replicare forme di organizzazione appartenute a un’altra congiuntura storica (e in molti casi anche geografica) non è solo illusorio, bensì votato al fallimento.
Il problema, piuttosto, è capire in che modo un’organizzazione che non si basa in un centro, che è reticolare e moltitudinaria, possa perdurare senza sclerotizzarsi, ma soprattutto possa incidere nella materialità del reale senza farsi stato. Detto in altre parole, la domanda è come organizzare il momento costituente di quella potenza politica che non ha un cammino e una meta prestabiliti.
Nella congiuntura attuale cilena, profondamente segnata dalla sconfitta nel plebiscito che ha bocciato la proposta costituzionale e dall’avanzata delle destre, sarebbe complicato indicare, da fuori, il cammino da seguire e mi pare più onesto abbozzare alcune considerazioni di ordine generale.
In un testo molto influente nel dibattito argentino a cavallo tra il XX e il XXI secolo, due teorici militanti argentini hanno differenziato “politica e gestione”, dove, detto sinteticamente, la prima indica diverse lotte per la liberazione e fuochi di resistenza, mentre la seconda indica un insieme di relazioni, leggi e diversi elementi di organizzazione di una società (non bisogna pensare esclusivamente ai governi. Nel caso cileno, il processo fallito di constitution making mi sembra un buon esempio)9.
Mi pare che un’organizzazione politica all’altezza dei tempi a cui è chiamata la potenza politica dell’Estallido social deve partire dall’articolazione di politica e gestione. Da una parte, non può ignorare la dimensione della gestione – si potrebbe farlo nel momento in cui le decisioni dei “gestori” hanno effetti sul presente e sul futuro? –, soprattutto in una congiuntura in cui soffia forte il vento degli autoritarismi, ma la gestione non può essere pensata come l’attualizzazione della politica, non può consumarla o sostituirla. Dall’altra, la politica basata sulla potenza dell’Ottobre cileno deve riuscire rimanere viva e avere effetti sulla gestione, senza pretendere di dissolversi in quella e senza farsi cooptare.
Nel dibattito marxista latinoamericano del secolo scorso, la dualità di poteri, come il boliviano René Zavaleta Mercato preferiva chiamare la questione sovietica del “potere duale”, girava intorno al problema del partito proletario e della trasformazione di mobilitazioni democratiche in rivoluzioni socialiste. Oggi, di fronte alla crisi di quei modelli basati in una società ultima, quando il futuro non ha la forza per organizzare il presente, ma anche in un momento in cui la storia ha mostrato che prendere il potere non è sufficiente per costruire il comunismo, vale la pena pensare la coesistenza – non solo temporanea, come nel dibattito classico – di due poteri a partire dalla differenziazione politica/gestione. Una lotta per liberare le soggettività dai modi di vita neoliberali, per costruire collettivamente forme di vita altre e molteplici – il desiderio di cambiare tutto non ha una forma univoca – e per aprire processi di trasformazione sociale non può prescindere dall’interazione e anche della tensione permanenti tra politica e gestione.

© Coordinadora NO+AFP
Note
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Credo che sia importante separare un processo costituente, che si riferisce alla volontà generalizzata di riorganizzare le regole che stanno alla base della vita in comune, da un processo di constitution-making, di produzione di un testo costituzionale
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Prendo in prestito questa formula a T. Moulian, Chile. Anatomía de un mito, Santiago del Cile, Lom, 2002
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Riprendo le parole usate da Piñera per commentare la congiuntura regionale, soprattutto la rivolta in Ecuador, pochi giorni prima che scoppiasse l'Estallido social
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Mi riferisco soprattutto ai Paesi europei e agli Stati Uniti e anche a certe fantasie che provengono da sinistra. Il fenomeno dell'estrema destra libertaria latinoamericana – Milei, ma anche al precandidato presidenziale cileno Johannes Kaiser – che rifiuta non solo ogni tipo di controllo dello Stato sul capitale, ma anche di protezionismo, non può essere classificato come nazionalista, nonostante una narrativa che rimanda a una grandezza passata da recuperare
Rimando a una serie di lavori elaborati da ricercatori e ricercatrici legati al Centro de Estudios de Conflicto y Cohesión social (COES) di Santiago del Cile. Si vedano in particolare: C. Aguilera et al., 18/O: Personas comunes en movilizaciones extraordinarias, «Ciper Académico», 17 ottobre 2020, https://www.ciperchile.cl/2020/10/17/18-o-personas-comunes-en-movilizaciones-extraordinarias-parte-1/ ; C. Aguilera et al., La política de la calle de cara al plebiscito, «Ciper Académico», 19 ottobre 2020, https://www.ciperchile.cl/2020/10/19/la-politica-de-la-calle-de-cara-al-plebiscito/ ; C Aguilera - V. Espinoza, , Chile despertó. Los sentidos políticos en la revuelta de Octubre, «Polis. Revista Latinoamericana», 61, 2022; C. Aguilera et al., Les primo-manifestants de l’estallido chilien en 2019, «L’homme et la societé», 219, 2, 2023, pp. 37-70
C. Aguilera et al., 18/O: Personas comunes en movilizaciones extraordinarias, cit
Potremmo dire che anche la strategia del lawfare, che ha portato alla condanna di diversi ex presidenti del ciclo progressista (Lula da Silva, Rafael Correa e Cristina Fernández de Kirchner su tutti) ha lo stesso obiettivo e mette a nudo un limite fondamentale delle esperienze latinoamericane del XXI secolo, troppo legate al carisma del o della leader
Si veda Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo, Roma, DeriveApprodi, 2003, p.65
Si veda, M. Bensayag – D. Sztulwark, Contropotere, Milano, Eleuthèra, 2002